Le storie de
Il Sultano
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Si dice che Il Sultano Abdul Aziz, avesse una spiccata propensione per la megalomania.
Il Sultano visse nel palazzo di Dolmabahce dal 1861 fino al 1876 e le spese annuali per il mantenimento del palazzo raggiunsero l'enorme cifra di due milioni di sterline.

Dolmabahçe Palace
Palazzo di Dolmabahçe affacciato sulle rive del Bosforo

Il personale di servizio era composto da cinquemila domestici, ad ogni pranzo sedevano non meno di trecento invitati. C’erano – si legge in una ricostruzione dell’inglese Noel Barber – quattrocento musici, duecento sorveglianti addetti allo zoo, trecento tra cuochi e sguatteri, quattrocento staffieri. Ogni mattina, quando si alzava e indossava la sua vestaglia di un rosso smagliante e la bianca papalina, una moltitudine di servitori obbediva ad ogni suo minimo capriccio. E di capricci ne aveva tanti! La stravaganza del Sultano, infatti, superava ogni limite.

Da Parigi, ad esempio, si era fatto mandare un servizio da tavola in oro massiccio con incastonati rubini e smeraldi; dalla Gran Bretagna una dozzina di pianoforti anche se poi a Corte nessuno sapeva suonare; dall’Austria alcune navi da guerra nonostante mancassero i marinai per farle governare. Questo era dunque Abdul Aziz al quale si deve la fortuna delle "isole rosse", più comunemente chiamate isole dei Principi, dal turco Kizil Adalar.

Isole dei Principi
Isole dei Principi sul Mar di Marmara a pochi Km. da Costantinopoli

 Un iorno il Sultano si era lasciato trascinare dal caicco imperiale verso il Mar di Marmara e fece la scoperta delle isole. Aveva con sé la sua schiava favorita, una circassa sedicenne di rara bellezza chiamata Mihri Hanoum alla quale Aziz soddisfaceva i più costosi capricci.

Hanoum rimase incantata da quei posti, soprattutto dalla natura incontaminata dell’isola grande o Buyukada così che il Sultano gliene fece dono dimenticandosi forse, o proprio perché non lo sapeva, che tanti secoli prima – in epoca bizantina – le isole venivano usate come luogo di reclusione per chi rappresentasse una minaccia al potere. Il Sultano ordinò che Buyukada diventasse un posto per villeggiarvi e che quindi, nell’isola, non mancasse nulla.

Lasciamo comunque Abdul Aziz al suo destino (morì suicida tagliandosi le vene con dei forbicioni) e ai vizi ottomani. Per noi non c’è nulla di più bello che ripercorrere, fuori dal solito immaginario collettivo, i viaggi d’autore, sospinti – come direbbe Alberto Arbasino – dal tiepido soffio del vento di Bitinia. E’ bella Buyukada, troppo bella per trovarsi ad appena venti chilometri a sud-est di Istanbul, dal suo traffico, dal suo convulso vociare. Vi si arriva dopo essersi imbarcati di buon mattino su un traghetto da Kabatas: poco meno di un’ora – quel tanto per lasciarsi alle spalle Heybeliada, Burgas e Kinali (le isole più piccole) – e sbarcare. La prima piacevole sorpresa è che non ci sono macchine. Sono state proibite, per legge. Le uniche ammesse a circolare sono quelle della polizia e dei vigili del fuoco, e naturalmente le ambulanze.

Per visitare l’isola occorre quindi servirsi di altri mezzi che poi sono biciclette e carrozzelle trainate dai cavalli. Un tuffo nel passato, un'atmosfera da epoca vittoriana, che chissà quante interessanti pagine avrebbe potuto far scrivere a ben più noti narratori. Ma né Giacomo Casanova, né Ernest Hemingway, né Jules Verne, né Théophile Gautier, né Edmondo de Amicis, né lo stesso Arbasino conoscevano Buyukada più sensibili alle magie di Pera e di Galata. Eppure non c’è angolo, nell’isola grande, che non meriti di essere descritto: le sue strade alberate, lo sfondo del mare a Heybeli, il monastero ortodosso di San Giorgio oltre la collina di Birlik, i piccoli muli utilissimi per arrampicarsi fino alla cima, il convento di San Nicola, le grandi e sontuose ville in legno.

E qui sarebbe il caso di aprire una breve parentesi per chiedersi se la casa in legno, del tutto simile a quelle che vedono in Tirolo, abbia subito l’influenza austriaca o, al contrario, se siano state le costruzioni austriache a subire l’influenza architettonica turca. Non va dimenticato, infatti, che per ben due volte – nel ‘600 e nel ‘700 – gli eserciti ottomani si portarono sotto le porte di Vienna e passarono anni, nell’uno e nell’altro caso, prima che la coalizione europea riuscisse a ricacciare l’invasore. Necessariamente le due culture dovettero amalgamarsi tra di loro, in un mix che - a Buyukada – è vivace testimonianza di uno stile unico nel suo genere. Peccato davvero che il grande Le Corbusier avesse disertato anche lui l’isola grande quando invece, ancora con il nome di Charles-Edouard Jeanneret, descrisse con passione la purezza e il rigore dell’architettura turca. Peccato davvero!

Al nostro sguardo è una distesa di ville silenziose, bianche o dai colori a pastello. Ville pulite, leggere che pare dentro non vi si cucini neppure tanto l’aria è limpida e senza odori sgradevoli. Tutto è in ordine, come le finestre fiorite, i balconi protesi, i giardini a gradinata e profumati di gelsomini, i viali ombrosi, le piscine seminascoste dalle palme dove i riflessi ora brillanti ora più offuscati danno agli specchi d’acqua qualcosa di festivo e di incantato sul quale vien voglia di camminare.

Il cavallo trotterella mentre ci porta a spasso da un capo all’altro dell’isola. Nell’atmosfera rarefatta si sente solo lo schiocco della frusta, non altro. Nemmeno il richiamo del muezzin, nemmeno le voci cantilenanti dei rivenditori di frutta, nemmeno il suono delle sirene dei traghetti ancorati all’imbarcadero.

Prima di riprendere il battello vale la pena portarsi al numero 55 di Cankaya caddesi dove si trova quella che fu la residenza di Izzer Pasa, capo della polizia segreta sotto il sultano Abdulhamit II. Sì, ne vale la pena perché pare certo che tra il 1929 e il 1933 in questa villa fu ospitato Leone Trotsky nei suoi primi anni di esilio. Sembra che qui l’esponente bolscevico abbia scritto la sua monumentale "Storia della rivoluzione russa".

Se vedete un gatto che attraversa la strada, lentamente, nulla di strano anche se ha attorno al collo una collana di turchesi da fare invidia poiché anche questa è Buyukada vista ed ammirata anche da lady Mary Wortley Montagu (moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli dal 1716 al 1718) quando scrisse di aver notato in mano al alcune bambine figlie del Grand Visir gioielli grossi come uova di tacchina.

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